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La morte di Sven Goran Eriksson - L’ultima lezione del rettore di Torsby

 

di Andrea Santoni

 

 

Qualche giorno fa, il bel ritratto di Julio Velasco a firma di Alessandra Giardini su la Gazzetta dello Sport, si concludeva citando una sorta di aforisma che altro non era se non una striscia dei Peanuts, lettura amata dal grande argentino. C’è Charlie Brown che dice a Snoopy: "Un giorno moriremo tutti". E Snoopy risponde: "Vero. Ma tutti gli altri giorni no".

Non sappiamo se Sven Goran Eriksson fosse un lettore deiformidabili dialoghi tra le creature di Charles M. Schulz ma è certo che questa è stata la sua filosofia di vita, ispiratrice dei suoi passi felpati fino ad oggi, quando si è spento, a 76anni, bruciato in breve, da un cancro al pancreas. 

Con la sua faccia un po’ così, con l’espressione un po’ così, a Genova come a Roma, come a Firenze o a Londra, o come in mezzo mondo da lui girato e rigirato, Svengo non si è mai dimenticato di amare ardentemente il calcio, le donne, l’esistenza tutta, lui nato avventurosamente in Svezia, lì divenuto, assai giovane, per il football internazionale, il “rettore di Torsby,” prima di salpare alla conquista di molti dei cieli possibili sotto i quali soggiornare amenamente, tra lauti ingaggi, ancor più facilmente riconosciuti a quel tecnico elegante e misurato, sempre pronto ad un sorriso, accompagnato dalla testa stempiata mandata di scatto indietro.

Un modo di guardare al tempo che scorreva che non si è piegato neppure alla notizia di una morte certa a breve, comunicatagli a inizio anno, inesorabilmente compiutasiadesso. La sua risposta vitale è stato un tour nei luoghi dei suoi successi, negli stadi, tra la gente, sempre più segnato dalla malattia, ma non per questo angosciato né angoscioso da guardare. Non c’è da distogliere lo sguardo ascoltandolo sussurrare il suo testamento spirituale, registrato per “Sven”, documentario a lui dedicato: «Penso che siamo tutti spaventati dal giorno in cui moriremo, ma la vita riguarda anche la morte. Spero che alla fine la gente dirà: “sì, era un brav'uomo”; ma non tutti lo diranno. Spero che mi ricorderete come un ragazzo positivo che cercava di fare tutto il possibile. Non dispiacetevi, sorridete. Grazie di tutto, allenatori, giocatori, il pubblico, è stato fantastico. Prendetevi cura di voi stessi e prendetevi cura della vostra vita. E vivetela! Ciao».

«Sono parole importanti. Non è un messaggio virile, il morire in piedi. Non virilità ma dignità e consapevolezza dell’importanza del vivere. Io alle sue parole credo di doveremolto». Renzo Ulivieri, presidente dell’Associazione Italiana Allenatori, è particolarmente toccato dalla morte di Eriksson: «Nei giorni in cui lui ha saputo della sua malattia senza speranza io ero da tempo ricoverato in ospedale, in gravi condizioni. Stavo lottando per vivere ma, posso dirlo, mi ero abbandonato. Ho letto tutto quello che lui ha detto e fatto nelle settimane e nei mesi seguenti. E ne ho tratto una spinta che mi ha aiutato, insieme al grande affetto che mi circondava e al lavoro straordinario dei medici del Santo Spirito, a Roma. Del tecnico che posso dire che non sia stato detto? Un uomo e un allenatore di classe. Anche a lui, come a Liedholm, ho cercato di rubare lo stile, un’impresa che durava 5 minuti…Non aveva l’ironia speciale di Nils ma ha saputo lasciare un segno, anche come uomo, fino alla fine».

  

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